Scheda I: Rovereto: Chiesa di San Pietro

* Ringrazio il dott. Andrea Chiantore per la consulenza sulla composizione geologica delle pietre costituenti il sagrato della chiesa di San Pietro di Rovereto.

Il sito

La chiesa di San Pietro di Rovereto sorge nel punto emergente di un trivio, da cui si eleva tramite una scala a due rampe, situato sull’antico percorso della cosiddetta “via romana”. Alcuni studiosi (Ferretto, Cimaschi, Lamboglia, Lopes Pegna e altri) propongono l’identificazione di Rovereto o della vicina località Dai Suè - toponimo, peraltro, non localizzato con esattezza - con la statio Ad Solaria, citata nelle fonti itinerarie e cartografiche antiche (Tabula Peutingeriana, Itinerario di Guidone e Itinerario dell’Anonimo Ravennate).

Le argomentazioni addotte dagli studiosi a sostegno di tale ipotesi - comunanza di radice linguistica tra Ad Solaria e Dai Suè, rinvenimento in situ di un’urna cineraria di età imperiale - sembrano, piuttosto, indizi non probanti, data la vastità dell’area ove si colloca Ad Solaria, compresa tra Ad Monilia (Moneglia) e Ricina (Recco o Rapallo).

Più interessante risulta il riscontro, a nord di Rovereto, della località Solaro, che mostra una più stretta aderenza, dal punto di vista linguistico, con Ad Solaria (cfr. scheda XIV); si tratta, comunque, di indicazioni toponomastiche talmente diffuse nel Tigullio da indurre, per il momento, a lasciare aperta la questione in attesa di ulteriori riscontri archeologici e più approfonditi studi.

Più probabile sembra l’attestazione di Rovereto in età medievale come confine orientale di fatto del Districtus Ianue, l’antico Comune di Genova, ipotesi che sembra suggerita dall’esegesi dei documenti d’archivio e sostenuta più o meno recentemente da molti studiosi (Garibaldi, Ravenna, Ferretto, Formentini, Vitale, Stellato, Ragazzi, Pavoni).

Dalla cartografia di età moderna risulta la rilevanza dell’insediamento di Rovereto, il solo, assieme a Zoagli e San Pantaleo, segnalato tra quelli compresi all’interno dell’odierno territorio comunale di Zoagli.

Descrizione architettonica

La chiesa, a pianta ad aula absidata e orientata a nord, presenta una facciata spartita in due ordini orizzontali mediante un cornicione e in tre specchiature verticali mediante lesene concluse da pinnacoli la cui forma ricorda un candelabro. L’ordine superiore è concluso da un timpano centrale, ai lati del quale la sagoma della chiesa è risolta in volute concave.

Chiesa di Rovereto

Il timpano e il cornicione sono arricchiti da una trabeazione di gusto classico, a ovuli e dentelli. Nelle specchiature laterali nicchie a tutto sesto ospitano le statue dei SS. Pietro e Paolo; al centro si apre il portale d’ingresso, sopra il quale un rilievo in stucco figura San Giovannino.

Le pareti est ed ovest sono a salienti per la sporgenza delle cappelle laterali, esternamente unite in una muratura liscia senza soluzioni di continuità. Sono anch’essi, come la facciata, spartiti da lesene verticali e bucate da tre aperture quadrilobate che danno luce alle cappelle laterali, in asse con tre aperture quadrate, poste più in alto, che illuminano l’aula centrale.

Nelle figure sono illustrate le viste Est (da Sant’Andrea di Rovereto) ed Ovest (dalla località Solaro) della Chiesa.

dalla Chiesa di Rovereto

Sul fianco nord si trova un secondo ingresso, immediatamente dietro la facciata; verso l’abside è impostato il campanile, su tre ordini con cupola rivestita in abbadini d’ardesia e orologio rivolto a ovest.

L’abside è semicircolare; al fianco sud è addossato il corpo rettangolare della canonica. La copertura della chiesa, a due spioventi, è in tegole di laterizio. Le murature degli alzati, a esclusione della parte absidale, sono intonacate e parzialmente tinteggiate di bianco.

L’interno, anch’esso rappresentato in figura, si presenta in forme decisamente barocche, con affreschi, dorature, stucchi e parti scolpite; ai lati dell’aula centrale si trovano le citate due serie di tre cappelle laterali. L’arredamento è costituito da altari, pulpito, quadri, statue, coro e organo lignei.

In controfacciata, nel settore est della chiesa, è murata l’urna cineraria ritrovata in località La Tenuta, durante lavori agricoli di scavo a ponente della chiesa.

Il reperto, studiato fin dai primi decenni dell’Ottocento, è scolpito in bassorilievo nel lato anteriore con teste angolari di ariete sorreggenti un festone di fiori e frutta. Nella cavità del festone prendono posto due uccellini affrontati; nella parte inferiore, alle due estremità, due avvoltoi grifoni retrospicienti (=che guardano indietro). Lo stato di conservazione è discreto, a parte qualche rottura sugli angoli e la consunzione che ha levigato la superficie. L’incisione a sezione tonda e poco profonda e i piani di passaggio digradanti dal centro alle estremità del festone producono un gioco di luci e ombre diffuse, privo di forti contrasti, con un certo effetto illusionistico. Da rilevare il gradevole senso dello spazio, atto ad evitare un’impressione di eccessivo affastellamento, malgrado l’evidente generale horror vacui.

interno della chiesa

Cimaschi data l’urna al I d. C. o poco oltre, per lo schema compositivo tipico dell’età claudia e largamente in uso in tutto il secolo. Tra le due teste d’ariete una tabella rettangolare, in cornice modanata, reca la scritta:

C SEXTIO SPEC

TATO TESSERARIO

COH I PR PV C TITIUS

MARCELLINUS BE

TRIB COH EIUSDEM

L’iscrizione spiega la destinazione dell’urna per le ceneri di Caio Sestio, eccellente (<<spectato>>) tesserario della I coorte pretoria (<<coh I pr>>), da parte di Caio Tizio Marcellino, comandante (<<trib>>=tribunus) della stessa coorte e beneficiario (<<be>>=beneficiarius). e beneficiario (<<be>>=beneficiarius).

Il tesserario era il soldato che trasmetteva la parola d’ordine o gli ordini del comandante incisi su una tavoletta (tessera).

Cimaschi rileva la posteriorità della scritta rispetto al rilievo in base a considerazioni di carattere epigrafico e all’eccessiva profondità del piano d’iscrizione, che attesta una sua riutilizzazione. Ciò è confermato dalla presenza della sigla <<PV>>, piane (?) vindicis (=difensore), appellativo che, alle coorti pretoriane, fu attribuito dal tempo di Settimio Severo (193-211 d. C).

Storia della chiesa

In un documento del 984 relativo a terre di proprietà di chiese genovesi nel Tigullio è menzionata una terra <<sancti petri>>, ma tale titolo va probabilmente riferito alla chiesa di San Pietro in Genova piuttosto che a quella di Rovereto, che probabilmente non esisteva ancora.
La prima menzione sicura e reperita di San Pietro di Rovereto risale al 1213, in un lascito testamentario che assegna <<ecclesie sancti petri de rovoreto solidos V>>.

L’esistenza della chiesa si può retrodatare almeno alla fine del XII secolo: nel 1197, infatti, è menzionato un prete Vassallo di Rovereto, al quale è attribuito il diritto, già tenuto dalla pieve di Lavagna, di esazione delle decime di Rovereto.

L’edificazione della chiesa di San Pietro di Rovereto tra i secoli XII e XIII si inscrive nella generale tendenza che muta la fisionomia ecclesiastica del territorio zoagliese e rapallese: il moltiplicarsi, in quegli anni, di fondazioni religiose determina il passaggio delle terre, già detenute da potentati ecclesiastici genovesi e non, alle chiese locali.

Nel corso dei secoli XIII e XIV, infatti, sono frequenti sono le attestazioni di beni immobili detenuti dalla chiesa di Rovereto.

La chiesa di San Pietro di Rovereto risulta, dai documenti della metà del secolo XIII, dipendenza dei Santi Gervasio e Protasio di Rapallo, al cui arciprete spetta la nomina del rettore. Circa un secolo dopo, nel 1351, una controversia al riguardo della gestione dell’ospedale di Rovereto (notevole la menzione di un solo ospedale, cfr. scheda XX) è risolta da Papimiano dei Fieschi, canonico della curia genovese.

Altro dato molto importante rilevabile dal citato documento del 1351 è il fatto che la chiesa di San Pietro e quella di Sant’Andrea sono rette dalla stessa persona.

Il dato risulta coerente con l’ipotesi, già espressa da Ferretto e più recentemente ribadita da Brignole, che le due chiese siano state in qualche modo riunite in seguito allo spopolamento seguito alla pestilenza del 1348. Nella successiva documentazione di età tardo e postmedievale, infatti, San Pietro e Sant’Andrea sono ripetutamente menzionate dipendenti l’una dall’altra. Le due chiese risultano, comunque, considerate separatamente sia nel cosiddetto Syndicatus del 1331 sia nell’atto di riparto della tassa straordinaria del 1387. La documentazione esaminata mostra un’unione di fatto nella persona del rettore, ma dal punto di vista giurisdizionale sembra confermata per San Pietro, almeno in età postmedievale, la dipendenza dall’arcipretura rapallese: Ferretto afferma che, fino al 1682, il rettore doveva visitare in occasione del Sabato Santo l’arcipretura di Rapallo e quella di Lavagna ad anni alterni.

Dal punto di vista amministrativo, la divisione ecclesiastica rispecchierebbe quella politica, dato che dal 1608 Rapallo è creata capitaneato e la chiesa di San Pietro, con l’ospedale di Sant’Orsola (per cui cfr. scheda XX), viene a trovarsi nel territorio di Rapallo, mentre quella di Sant’Andrea, con l’ospedale di <<San Quilico>> (per cui cfr. scheda XX) rimane compreso nel capitaneato di Chiavari.

La discrepanza fra la situazione di fatto e quella di diritto darà adito a plurisecolari rivalse campanilistiche dell’una e dell’altra parrocchia, protrattesi per i secoli XVI-XVIII e culminanti negli anni centrali del ’700.

Monsignor Saporiti, nel 1763, risolverà l’annosa questione dichiarando la separazione delle due chiese.

Un inventario risalente al 1450 elenca minuziosamente le dotazioni mobili della chiesa di Sant’Andrea, della chiesa di San Pietro e di <<Nostra Domina>>, il santuario di Santa Maria delle Grazie.

Si ha notizia di una riedificazione nel secolo XV della chiesa di San Pietro dalle primitive forme duecentesche. L’aspetto oggi consegnato dall’edificio è frutto della ricostruzione della chiesa a partire dal 1698, anno al quale risale la posa della prima pietra: il 5 agosto <<primis lapis benedictus est hodie mane a R. Ambrosio de Nigris, Archipresbitero>>.

Negli anni 40 del secolo XVIII l’edificio non era ancora compiuto. Le vicende costruttive del secolo XIX, che riguardano soprattutto gli arredi interni e il campanile, e i restauri del XX sono dettagliatamente documentati nella scheda ’A’ relativa alla Chiesa di San Pietro di Rovereto, conservata nel fascicolo della Soprintendenza per i beni Architettonici della Liguria.

Il sagrato

Nell’area antistante la chiesa di San Pietro di Rovereto è visibile un notevole esempio di risseu, tipica pavimentazione realizzata in ciottoli policromi reperibili in natura, forma tra le più originali di impiego di materiali lapidei in Liguria.

Una prima attendibile stima del patrimonio di risseu esistente in Liguria è stata effettuata una decina d’anni fa, considerando la forma, la pezzatura (=dimensione), la composizione mineralogica dei prodotti impiegati, i sottofondi e i giunti utilizzati nella realizzazione, la forma planimetrica, la struttura del disegno e gli elementi decorativi e simbolici.

Anche se in Liguria sono numerosi i sagrati decorati a risseu ed è ancora usata qualche pavimentazione simile per edifici civili, questa tradizione sta lentamente scomparendo. Gli autori, o “maestri” di questa abilità manuale, hanno lasciato un vuoto ormai impossibile da colmare, poiché è andata perduta la tradizione di tramandare i segreti e le abilità tecniche e artistiche che questo mestiere comporta.

Gli artigiani che si occupavano di questo particolare lavoro hanno lasciato solo poche tradizioni orali che non si sono mai trasformate in una forma di sapere codificato. Le conoscenze sono state trasmesse solo ai collaboratori diretti (la descrizione della tecnica e le notizie qui riportate circa la tecnica del risseu sono state raccolte dai ricercatori coordinati da Paolo Marchi presso gli ultimi anziani artigiani che ancora operano nel settore).

La realizzazione dei pavimenti a risseu, oggi come in passato, è frutto di una stretta collaborazione fra committente e artista. Il committente fornisce le indicazioni circa il soggetto desiderato; il decoratore esegue il disegno per verificare l’interpretazione e le volontà del richiedente; il bozzetto concordato viene quindi adattato allo spazio a disposizione, scegliendo la scala di rappresentazione più consona a mettere in luce il disegno e preparando il progetto della decorazione che viene realizzato su carta, in scala al vero.

Esistono anche modi e tempi precisi per la raccolta paziente e sistematica dei sassi; la ricerca inizia di solito all’alba, meglio se dopo una violenta mareggiata. In queste condizioni i colori dei sassi sono messi in risalto dalla luce radente e vengono meglio esaltate le sfumature di colore.

La scelta e la selezione è di fondamentale importanza per il buon compimento dell’opera. La tecnica della messa in opera nel corso dei secoli si è evoluta, ma senza sostanziali variazioni.

Prima si realizza la giacitura sul luogo ove deve prendere posto il manufatto, scavando, pareggiando, consolidando il terreno e stendendo il letto di posa solitamente formato da uno strato di sabbia bagnata e compressa.

Col passare degli anni la tecnica è stata affinata sostituendo al vecchio impasto di fondo altre mescolanze più consistenti quale quella con calce viva e pozzolana oppure con calce e porcellana in polvere, una sorta di malta che, morbida in un primo momento, si indurisce attorno ai ciottoli, per dare maggior coesione.

La parte più impegnativa del lavoro è quella dedicata alla selezione cromatica dei ciottoli raccolti per comporre il mosaico. Il materiale raccolto in zona, a volte, condiziona gli abbinamenti di colore e la pezzatura dei ciottoli che può essere, per l’artista, fonte di variazioni sul tema di base.

Queste esigenze tecniche, dettate da imprevisti casuali, se ben risolte, conferiscono estro e pregio all’opera stessa rendendola unica nel suo genere.

Il disegno, su carta in forma e stesura definitiva, viene trasferito su letto di sabbia col procedimento dello “spolvero” (perforazione dei contorni del disegno e spolveratura con gesso fine in modo da far rimanere sul letto di posa la traccia del disegno).

Successivamente si ripassa il contorno del disegno e si procede alla posa dei ciottoli partendo di solito dai contorni ed eseguendo poi la campitura. Si cosparge di sabbia il lavoro appena eseguito e si procede alla “bagnatura” per otturare le varie fessure e costipare sul fondo la sabbia, fermando saldamente le varie pietre. Terminata l’opera si cosparge ancora di sabbia lasciando che si assesti nel corso naturale del tempo.

Nonostante il loro considerevole valore storico-artistico, gli acciottolati liguri non sono stati oggetto, nel tempo, di una sufficiente azione di tutela: frequenti, invece, i restauri approssimativi e impropri consistenti nella sostituzione del letto di sabbia, tradizionale supporto del risseu ligure, con malta cementizia.

Metodo, questo, molto sbrigativo, che implica l’affogamento dei ciottoli nella malta stessa e provoca una collocazione meno efficace, con maggiore distanza tra un ciottolo e l’altro e serio rischio di perdita di unitarietà e leggibilità del disegno.

Per eseguire un restauro sui risseu è necessaria l’esperienza e la sensibilità di un maestro artigiano che sappia combinare assieme e nella giusta proporzione le malte, la calce e i cementi.

Il sagrato di San Pietro di Rovereto si presenta dotato dei tipici caratteri del risseu genovese, differenti da quelli dell’area spezzina, imperiese e savonese. Infatti il Genovesato si distingue per la presenza di ciottoli di varie pezzature, di vari colori - ma è lo Spezzino il regno della policromia -, per la frequenza degli stemmi araldici, per la tendenza alla decorazione baroccheggiante, per la maggior complessità d’impianto e di disegno visibile soprattutto nella produzione settecentesca, caratterizzata da composizioni simmetriche attorno a una figura centrale.

Si osserva a Rovereto una soluzione di notevole complessità e libertà compositiva: nel rispetto di una generica simmetria è perseguita l’unitaria concezione di disegno e struttura d’accesso alla chiesa, distribuendo la decorazione su tre livelli e utilizzando anche lo spazio d’accesso alla canonica. Così, saliti i cinque gradini posti al livello più basso, sull’asse centrale della chiesa, siamo accolti dalla scritta a risseu LOCUS ISTE SANCTUS EST, sul lato lungo di un primo riquadro figurato con un motivo fantastico simile a un fiore che si dilata in forma ellissoidale. Salendo le due rampe di sette gradini, disposte su un settore di circonferenza, si incontrano altri due riquadri trapezoidali con motivi floreali geometrici. Gli ultimi sette gradini portano al piano più esteso e più vicino all’accesso della chiesa.

Alle estremità, cornici mistilinee e quindi, più internamente, riquadri mistilinei contengono due rose dei venti inscritte in un cerchio.

Al centro, fulcro della composizione, lo stemma con le chiavi di Pietro, incorniciato da tralci liberamente trattati e contenente la data 1781 (allegato gg). Sotto lo stemma, una terza rosa dei venti affiancata da volute fitoformi conclude la pavimentazione della terrazza verso sud.

Sul sagrato di San Pietro si trovano pietre di quattro colori: nero (pietre basaltiche, ofioliti), bianco (calcite), grigio (calcari marnosi), rossiccio (diaspri).

Si trova, pure, usata in funzione cromatica la patina di ematite (ossido di ferro) presente sulla superficie di alcune calciti. Le dimensioni di tali ciottoli variano da circa cm 3 x 2 a circa cm 10 x 5.

Non è noto il nome dell’artista che eseguì il sagrato, che si colloca cronologicamente quasi vent’anni dopo la consacrazione di San Pietro ad arcipretura da parte di monsignor Saporiti. La suggestiva ipotesi che il manufatto segni il momento definitivo e conclusivo della riedificazione della chiesa presupporrebbe un prolungarsi dei lavori edilizi per oltre ottant’anni.

Nell’archivio storico del Comune di Zoagli esiste un fascicolo, risalente al 1897-1898, relativo al piazzale della chiesa di Rovereto, dal quale forse si potrebbero ricavare notizie sul sagrato. Dalla scheda “A” relativa alla chiesa di San Pietro di Rovereto conservata presso la Soprintendenza Archivistica, invece, si trae la notizia di un restauro risalente al 1929.

Attualmente lo stato di conservazione non è buono: in più punti avallato, dissestato, cementificato, rappezzato, consumato, invaso dall’erba, il sagrato di San Pietro di Rovereto attende un intervento di restauro conservativo che, nel rispetto delle tecniche tradizionali, restituisca al manufatto la sua dignità di cornice dell’edificio ecclesiastico e alla comunità locale un importante e significativo frammento della propria memoria storica.

Bibliografia

 

 

REDATTO DA:Silvia Vallini

REVISIONATO DA:Colette Bozzo Dufour

DATA:22/2/2002